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Percorso A: Le fibre tessili

17 Set 2008 di PortaleRagazzi.it-->

Definizione e tipologia di fibre tessili
Gran parte delle cose che ci usiamo nella vita quotidiana sono fatte di tessuti: dai vestiti ai tappeti, dalle borse ai divani, dalle coperte alle tovaglie.

Ognuno di questi ha caratteristiche proprie, dovute sia al modo in cui è stato realizzato, che alla materia di partenza: in alcuni casi infatti i filati nascono da parti di piante, in altri da animali o perfino da minerali, in altri ancora derivano da sostanze inorganiche attraverso elaborati processi chimici. 

 

All’origine di un tessuto c’è dunque un ammasso informe di fibre, cioè di strutture sottili che per la loro struttura, lunghezza, resistenza ed elasticità hanno la proprietà di unirsi, attraverso la filatura, in fili sottili, tenaci e flessibili che a loro volta possono essere sottoposto a tessitura.

canapa.jpgA seconda della loro origine, si distinguono fibre tessili naturali ( che derivano da animali, piante e minerali) e tecnofibre, cioè fibre ottenute dall’uomo attraverso processi chimici, che sono nate a partire dagli inizi del ‘900. Ognuna di queste fibre ha caratteristiche proprie, sia morfologiche (lunghezza, diametro, lucentezza, sofficità, morbidezza e voluminosità) che fisico-meccaniche (igroscopicità, stabilità termica, comportamento alla combustione, feltrabilità, coibenza, tenacità, resilienza, cioè recupero elastico, estensibilità, elasticità).

Sono proprio queste caratteristiche che comportano delle diversità in alcune proprietà dei tessuti: ad esempio, lana e seta sono le fibre più coibenti, cioè con la maggior capacità di isolare dal calore, e tale proprietà si trasmette ai tessuti con esse realizzati che risultano i più adatti a proteggerci dal freddo ma (pensando alla lana sembra incredibile) anche dal caldo.

 

 

1. Fibre animali e fibre vegetali
 

 

Cosa sono e quando si è iniziato ad utilizzarle

I più antichi tessuti creati dall’uomo (ed arrivati fino a noi) risalgono al Mesolitico: anche se non sappiamo perché i nostri antenati cominciarono a tessere, sappiamo che iniziarono utilizzando fibre vegetali, e più precisamente il lino, e solo in un secondo momento iniziarono a servirsi anche di fibre animali. Le fibre vegetali sono composte prevalentemente da cellulosa e si ricavano da diverse parti della pianta: dallo stelo, come nel caso di lino, canapa e ginestra, dai semi, come per il cotone, o anche dalle foglie, come nel caso del sisal. Le fibre animali invece sono costituite da sostanze proteiche, e sono la lana, ricavata da animali lanuti come ovini, cammelli, conigli etc, e la seta, dal bozzolo del baco da seta (Bombyx mori).

ginestra_fibre.jpgL’arte della tessitura si diffuse velocemente di civiltà in civiltà, dagli Egizi ai Fenici, ai Greci, ai Romani. In Toscana a lungo le colture di canapa, lino e ginestra affiancarono, anche se relegate su terreni marginali, la onnipresente coltura dei cereali: le fibre venivano filate e tessute dalle donne delle famiglie contadine, servivano cioè principalmente per autoconsumo, senza dare luogo a delle vere e proprie attività commerciali (tranne che nel caso della canapa e della ginestra durante l’epoca fascista).

La produzione di seta, possibile grazie al fatto che il gelso bianco di cui si nutre il baco da seta ha trovato un ambiente ottimale nella nostra regione spingendosi anche sulle montagne fino ad 800m di altitudine, dette invece subito vita ad un fiorente filiera, proseguita fino ai primi decenni del ‘900. La lana, il cui commercio fece grande la Toscana ed in particolar modo Firenze, paradossalmente veniva importata dall’Inghilterra per essere qui solo lavorata: le greggi di pecore presenti in Toscana, composte principalmente da animali di razza appenninica, fornivano infatti un filato di bassa qualità, sfruttato quasi esclusivamente per uso familiare.

 

2. Fibre tessili vegetali
 

 

Storia delle fibre vegetali presenti in Toscana : quali, quando e come sono state utilizzate
In Toscana la coltura del lino, affiancata da quella della canapa, iniziata in epoca remota continuò ininterrotta anche nel periodo caratterizzato dall’economia mezzadrile, durante il quale alle colture cerealicole si affiancò spesso, sui terreni ritenuti marginali, la coltivazione di queste piante da fibra.

Canapa e lino sono state le fibre tessili per eccellenza fino al diffondersi della coltura del cotone in America: da allora infatti l’uso della canapa a scopo tessile è limitato a piccole realtà locali, mentre quello del lino si è fortemente contratto (almeno per quanto riguarda l’Europa). Un imponente campagna per il rilancio della coltivazione del lino ebbe luogo tra le due guerre, a sostegno della politica autarchica del regime fascista: il successo di questa politica ebbe vita breve e la coltivazione, subito dopo la seconda guerra mondiale, andò nuovamente scomparendo.

ginestra_lavorazione.jpgSempre durante il periodo fascista un’altra pianta utilizzata a scopi tessili fu la ginestra (Spartium junceum). La fibra ricavata dalla ginestra era già utilizzata da Fenici, Cartaginesi Greci e Romani per la produzione di tessuti grossolani, corde e tele per la confezione delle velature, ma il suo utilizzo ebbe un ruolo importante nell’economia Italiana, e soprattutto della Toscana, solo intorno alla metà del secolo scorso, quando fu utilizzata per la fabbricazione di manufatti fino ad allora realizzati con materie prime di importazione (es. la juta).

La coltivazione della ginestra, era importante soprattutto nella fabbricazione di sacchetti. In tutta Italia, i ginestrifici erano 61, di cui 9 nella sola Toscana, distribuiti tra le province di Firenze, Arezzo e Siena. Le iniziative volte a favorire lo sfruttamento dei ginestreti furono all’epoca numerose, ma al riprendere delle importazioni di fibre vegetali dall’estero (juta, cotone etc.) e al diffondersi dell’utilizzo di fibre sintetiche, l’utilizzo di questa pianta decrebbe fino a scomparire, tranne che nel caso di piccolissime realtà locali in alcuni paesi di Basilicata e Calabria.

 

Canapa, lino e ginestra:dove coltivarle
La canapa industriale (Cannabis sativa) ha una grande capacità di adattamento e può essere coltivata in vari tipi di suolo, ma per essere di buona qualità e per dare una buona resa, deve trovare un suolo abbastanza profondo e ben drenato, con un discreto grado di umidità e buone capacità nutritive.

lino.jpgE’ importante evitare un suolo poco drenato, in quanto un eccesso di acqua in superficie potrebbe danneggiare seriamente il raccolto. La canapa è estremamente sensibile alle inondazioni e alla compattezza del suolo. Necessita comunque di almeno 250-300 mm di pioggia durante il periodo vegetativo. La temperatura ideale per lo sviluppo è tra i 19° e i 25°.

Grazie a queste sue caratteristiche ed alle numerose varietà esistenti, la canapa risulta potenzialmente coltivabile in tutto il mondo, tanto che in passato in Italia veniva coltivata dai 1000 m di altitudine del Piemonte fino alle zone mediterranee del sud Italia. Il lino (Linum usitatissimum) da fibra predilige un terreno fine, tendenzialmente acido, ricco di sostanza organica, profondo e ben drenato. Cresce in tutte le regioni con clima temperato, su terreni solatii e riparati dal vento, fino a 700mt di altitudine (purchè la temperatura non scenda durante il periodo vegetativo al di sotto dei 5-9°), ma ha un elevato fabbisogno idrico, maggiore di quello della canapa.

lino_raccolta.jpgLa ginestra (Spartium junceum) è un arbusto diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo. Allo stato naturale si ritrova su scarpate e terreni difficili, secchi, sabbiosi o rocciosi, principalmente calcarei, purché non ci siano fenomeni di ristagno idrico. Predilige le esposizioni in pieno sole, resiste bene alla siccità estiva, non teme il freddo e si ambienta senza problemi anche in zone con clima difficile: per esempio resiste bene anche ai forti venti e all’aria salmastra delle coste.

3. Fibre tessili animali

 

La lana
La lana si ricava dal mantello di ovini (pecore e di alcuni tipi di capre), conigli, cammelli ed alcuni tipi di lama. Essa si ottiene attraverso l’operazione di tosatura, cioè taglio del pelo, che per le pecore avviene in primavera. Questa lana viene definita lana vergine.

lama.jpgCerto la lana si può ricavare anche dopo la macellazione:in tal caso si ha la cosiddetta lana di concia. L’industria inoltre riutilizza la lana ricavata dagli scarti di produzione:si parla in questo caso di lana rigenerata. Gli animali da cui si ricava principalmente la lana sono:
 

  • La pecora merinos: razza selezionata in Spagna intorno al XII secolo. Attualmente è allevata in modo estensivo in Australia, America meridionale e Sudafrica. Produce una lana molto fine e pregiata;

 

  • La pecora di razze indigene, hanno un pelo più grossolano, usato tradizionalmente per la confezione di materassi;

 

  • La capra d’angora allevata in Turchia, Sudafrica, Stati Uniti, dalla quale si ottiene la lana mohair;

 

  • La capra del Cashemere originaria del Kashmir (Tibet) diffusa anche in India, Cina, Iran, Afghanistan e dalla quale si ricava una lana molto pregiata; 

 

  • L’alpaca e la vigogna, due tipi di lama che vivono sulle Ande;

 

  • Il cammello, sia quello asiatico che i dromedari africani; 

 

  • Il coniglio d’angora.

    Le caratteristiche della lana dipendono, oltre che dalla razza dell’animale, dalla parte del corpo da cui derivano: più pregiata è la lana del dorso, meno pregiata quella delle zampe e dell’addome. Le lane di qualità più elevata sono quelle costituite da filamenti sottili, che presentano maggiore filabilità, e dotate di elevata bianchezza, buona elasticità, igroscopicità e potere coibente.

    L’allevamento ovino in Toscana
    La filatura e la tessitura della lana si svilupparono dopo quelle delle fibre vegetali. Da ritrovamenti archeologici, risalenti a circa 5000 anni fa, risulta che la lavorazione della lana era diffusa in diversi luoghi, dalle Ande all’Egitto, dall’Asia Minore all’Europa Settentrionale. Roma importava lana grezza dalla Grecia, dalle Gallie e dall’Africa per lavorarla nelle fabbriche dell’impero.

    La Spagna fu un grande centro di produzione e tessitura della lana e l’allevamento della pecora merino durante il XIV secolo segnò una grossa svolta nell’industria laniera: la morbidezza e la struttura sottilissima della fibra merino permetteva di realizzare stoffe damascate bellissime e resistenti. Questa razza fu introdotta in Francia ed in Inghilterra alla fine del Settecento, mentre in America arrivò solo dopo il 1800. In Toscana, dove per lungo tempo Firenze è stata la capitale del tessile, riferimento per tutta Italia, si allevavano e si allevano ancora oggi numerosi ovini.

    lana_cardare.jpgLa lana che se ne ricava però non è un granché come qualità: nonostante la presenza di numerosi e ricchi pascoli, è troppo caldo in Toscana (perfino sull’Appenino) e le razze locali non hanno avuto la necessità di sviluppare velli con elevato potere coibente, come quello delle merinos. Comunque, se oggi le pecore vengono allevate soprattutto per il loro latte e la loro carne, un tempo (fino ai primi decenni del XX secolo) l’allevamento ovino era praticato in maniera diffusa e la lana ricavata era utilizzata non solo per la manifattura domestica di indumenti destinati ai componenti della famiglia, ma anche dalle industrie tessili locali, che producevano prevalentemente feltro e quindi non necessitavano di lana particolarmente fine.

    Le greggi toscane erano composte prevalentemente da animali di razza Appennnica e Massese (nata e sviluppatasi nella zona di Massa,ma oggi diffusa in tutta la regione), che danno una lana molto grossa e ricca di peli morti, ma che feltra rapidamente, a cui si affiancavano razze locali come la Zerasca, presente nella zona del comune di Zeri in Lunigiana, che da una lana dai lunghi peli caratteristici, la Garfagnana, tipica della Garfagnana, e la Pomarancina, razza tipica del comune di Pomarance, nelle Colline Metallifere.

    Benché la lana che se ne ricavi sia di scarso pregio rispetto alle richieste di mercato attuai, tanto che solo una piccola parte viene utilizzata nella produzione di materassi ed il resto è classificato dalla normativa vigente come rifiuto speciale, queste razze presentano altre caratteristiche che le rendono una risorsa preziosa per il territorio: sono infatti animali ce nei secoli si sono adattati a vivere in zone con caratteristiche climatiche avverse, su terreni poco produttivi ed impervi, che altrimenti non sarebbero utilizzabili in altro modo.

    La seta
    La produzione della seta nacque in Cina, a partire dal terzo millennio avanti Cristo: qui l’allevamento dei bachi e la filatura rimasero a lungo un segreto, e i preziosi tessuti raggiungevano l’Occidente percorrendo quella che divenne nota appunto come “via della seta”. Il segreto della produzione rimase tale fino al 550 d. C., quando venne creato il primo allevamento di bachi da seta (Bombyx mori) a Costantinopoli, grazie alle uova che due monaci, inviati in Cina dall’imperatore Giustiniano, erano riusciti a trafugare.

    In Europa i bachi da seta ed il gelso, cioè la pianta necessaria al loro nutrimento, vennero introdotti solo dopo la caduta dell’Impero Romano, grazie agli Arabi che introdussero la bachicoltura in Spagna ed in Sicilia, da cui successivamente si diffuse in tutta Italia . Le prime notizie di produzione di seta in Toscana risalgono al XIII secolo, anche se inizialmente i quantitativi prodotti dovevano essere molto scarsi: tale problema perdurò a lungo tanto che ancora a fine del Cinquecento (1576 per la precisione) un editto granducale ordinava, per favorire un incremento della produzione, l’impianto di almeno quattro gelsi per podere (ovviamente nelle aree idonee a questa pianta) e nel Settecento ed Ottocento numerosi furono gli sforzi dell’Accademia dei Georgofili volti a diffondere l’uso di metodi razionali di allevamento del baco da seta.

    La bachicoltura comunque crebbe e si diffuse, rimanendo un attività ben radicata nelle campagne fino agli anni ’20-’30, quando lo spopolamento delle campagne legato all’industrializzazione ed il crollo del prezzo dei bozzoli decretò il suo progressivo e definitivo abbandono.

    La bachicoltura in Toscana: dal baco alla seta
    Il fattore limitante per la diffusione di questo tipo di allevamento era, ed è, il fatto che il Bombyx mori si nutre unicamente di foglie di gelso fresche. Di questa pianta esistono due varietà, il gelso nero (Morus nigra), originario della Persia ed introdotto in Italia per primo fin dall’epoca dei Romani, che lo utilizzavano come pianta da frutto e come tutore delle viti, e il gelso bianco (Morus alba), originario della Cina e di cui si ha notizia solo a partire dal 1500.

    seta.jpgEntrambe le specie tollerano bene il vento ed il freddo invernale, crescendo fino a circa 600 mt di altitudine il bianco e 1000 mt il nero, sono molto frugali, vogliono una posizione solatia ed evitano solo i terreni argillosi e con ristagno di acqua. La coltivazione del gelso e l’allevamento dei bachi si diffusero in Toscana probabilmente a partire dal territorio della Valdinievole, in territorio lucchese, ma data la grande adattabilità della pianta si espansero rapidamente per tutte le campagne della regione, ad esclusione delle aree litorali e di quelle palustri.

    L’allevamento dei bachi da seta iniziava con l’acquisto del seme, cioè delle uova, che i contadini compravano al mercato nella seconda metà di aprile e che prontamente le massaie spostavano in una toppina, cioè un sacchetto di stoffa fine, che riponevano in seno così da garantire alle uova il calore necessario alla schiusa. Dopo una decina di giorni le uova erano ormai schiuse, e dalla toppina i bachi venivano spostati prima in recipienti via via più ampi, poi su stuoie di canne sistemate a formare un castello, ed alimentati con foglie di gelso trinciate in maniera sempre più grossolana, aumentando con la crescita dell’insetto anche le dosi e la frequenza dei pasti.

    Dalla schiusa alla formazione dei bozzoli trascorrono 30-35 giorni, durante i quali i bachi effettuano 4 mute: subito dopo ognuna di esse era necessario cambiare le stuoie. Dopo l’ultima muta (che dura 36/48 ore invece di 24 come le altre ed era chiamata dormita della grossa, da cui il noto modo di dire usato per indicare un sonno più prolungato del solito) i bachi continuano a crescere, mangiando continuamente, per altri 7 giorni: la loro alimentazione in questo periodo richiedeva quindi l’aiuto di tutta la famiglia.

    Dopo questo periodo i bachi cercano una adatta superficie verticale per potersi imbozzolare: le famiglie quindi preparavano il bosco, disponendo verticalmente fasci di scopa e depositandovi sopra gli insetti. L’ultima incombenza era la raccolta dei bozzoli e la loro vendita al mercato,o alle filande, o per meglio dire alle tratture. Queste erano diffuse capillarmente sul territorio, ovunque fosse disponibile l’acqua che serviva sia a svolgere il filo dei bozzoli, dopo essere stata scaldata (o a partire dall’Ottocento tramutata in vapore), sia ad azionare i macchinari necessari alla torcitura del filo stesso.

4. Mestieri legati al tessile

 

La lavorazione delle fibre vegetali (canapa e lino): come si passa dalla pianta al tessuto.


Le tradizionali tecniche di lavorazione delle due fibre si somigliano molto, e si svolgevano anche durante lo stesso periodo dell’anno. In Luglio ed Agosto canapa e lino venivano tagliati e lasciati ad essiccare nei campi. Una volta ben asciugate, le piante, riunite in fasci, venivano portate presso i fiumi, dove erano sottoposte a macerazione per sette-dieci giorni: la sommersione in acqua era necessaria per ammorbidirle e rendere quindi più agevole la loro lavorazione.

canapa_impianto.jpgLa trasformazione degli steli in filati avveniva poi attraverso tre fasi: la gramolatura, (o stigliatura nel caso del lino) ossia la separazione tramite battitura delle fibre dalla parte legnosa dello stelo, la pettinatura, utilizzando dei pettini di metallo per liberare le fibre dalle ultime impurità e renderle parallele , ed infine la filatura. Una volta ottenuto il filato, si procedeva bollitura della matassa così da ammorbidirla ulteriormente, sbiancarla e assottigliare il filo. Volendo, sempre in fase di bollitura e tramite l’utilizzo di coloranti naturali, era possibile tingere la matassa.

Si procedeva poi all’orditura, ossia a predisporre il filato su dei supporti per consentire la tessitura: questa era fatta su telai ed era un lavoro prettamente femminile, che richiedeva molta pazienza e una buona tecnica
 

 

La lavorazione della lana: i passaggi dalla tosatura della pecora alla pezza di lana

Storicamente la lavorazione della lana avveniva attraverso numerosi passaggi che coinvolgevano un numero elevato di artigiani. La prima operazione cui era sottoposta la lana era la smistatura, ossia la scelta e la separazione delle diverse parti del vello di pecora; a seconda del tipo di tessuto che si doveva produrre, infatti, si impiegavano diverse qualità di lana. La fase successiva era il lavaggio.

Dopo essere stata fatta asciugare all’ombra, la lana tornava alla bottega del lanaiolo, che a sua volta la spediva presso altri artigiani addetti ai passaggi che dovevano essere eseguiti prima della filatura:

1) la sgrassatura, ottenuta immergendo i fiocchi in bagni di orina, e

2) la battitura, eseguita a mano a colpi di bastone. A questo punto la lana era pronta per essere consegnata agli

attrezzo_cardare.jpg3) scardassieri o cardatori, che sfilacciavano i fiocchi in fili di varie lunghezze: i fili più corti erano impiegati nel produrre i filati utilizzati come trama del futuro tessuto, quelli più lunghi per l’ ordito. Questi ultimi venivano sottoposti anche alla

4)pettinatura, eseguita con pettini muniti di denti metallici, che rendevano le fibre più lisce ed omogenee, eliminando quelle di misura inferiore alla lunghezza richiesta. Il lavoro dei cardatori e dei pettinatori era un passaggio molto importante perché era quello che consentiva alla materia grezza di diventare un prodotto semilavorato.

La 5) filatura era in genere assegnata alle donne, che lavoravano in casa e consisteva in due operazioni eseguite contemporaneamente: la torsione e la stiratura del filo, avvolto a spirale e messo in tensione usando i fusi e le rocche. Le tecniche di filatura si evolsero rapidamente per cui già alla fine del ‘200 si diffuse il filatoio a puleggia, munito di una ruota azionata manualmente e posta su una piattaforma alla cui estremità era attaccato il fuso, su cui prima si torceva e poi si avvolgeva il filato; solo alla fine del ‘400 comparve il filatoio ad alette che consentiva una filatura continua grazie ad un dispositivo a forma di U, che ruotando intorno al rocchetto riusciva sia a torcere che ad avvolgere il filato senza più interruzioni. Gli incaricati della consegna e del ritiro del filato erano chiamati

6)stamaioli, che lo passavano direttamente ai

7)tessitori, disposti in coppia davanti al telaio. La tessitura consisteva nell’intrecciare i filati più lunghi, detti ordito, disposti parallelamente nei licci del telaio, con quelli più corti, detti trama, inserendo questi ultimi, per mezzo di una navetta (o spola), negli spazi tra un filo di ordito e l’altro. Le combinazioni d’intreccio possibili, dette armature, potevano essere infinite, ma quella più semplice e comune era la tela, ottenuta separando gli orditi pari dai dispari e facendovi passare sotto il filo di trama. Quando le pezze di panno erano state tessute venivano riconsegnate alla bottega del lanaiolo, ma il lavoro non era ancora finito:

8)le pezze intessute dovevano essere riviste per eliminare eventuali nodi o impurità,

tosare.jpg9)lavate nuovamente con acqua bollente e sapone e stese ad asciugare per poi passare alla

10)gualchiera. Le gualchiere, costruite sui fiumi (in Toscana soprattutto lungo l’Arno), sfruttavano l’energia dell’acqua per muovere dei macchinari che battevano e pressavano le pezze. Le pezze pressate erano poi condotte al tiratoio, dove venivano nuovamente stese e tirate. L’ultima fase era

11)la tintura, che poteva comunque essere eseguita su richiesta del lanaiolo anche in una delle fasi precedenti.

La lavorazione della lana oggi

Nelle operazioni di lavorazione della lana attualmente si ricorre all’aiuto della meccanizzazione. Dopo la tosatura dell’animale, avviene la separazione dei bioccoli di lana più fini e regolari del dorso, fianco e collo, da quelli meno pregiati del ventre e delle gambe. I bioccoli vengono battuti e aperti per togliere le impurità superficiali e poi lavati. Dopo l’asciugatura, il fiocco di lana viene controllato, cardato, filato e tessuto. Il tipo di tessuto dipende dal filato usato: cardato o pettinato.

Il filato cardato ha fibre lunghe e corte disposte irregolarmente in tutte le direzioni, per cui è più soffice e rigonfio. Il filato pettinato ha fibre di lunghezza uniforme, disposte parallelamente in modo omogeneo, successivamente stirate e ritorte, in modo da formare un filo regolare, liscio e resistente. Il tessuto cardato sarà soffice, rigonfio, ma anche un po’ ruvido, mentre quello pettinato sarà morbido, liscio e compatto. Le lane merino sono destinate alla filatura pettinata, mentre le lane incrociate sono più usate nella filatura cardata. Il tessuto ottenuto dalla tessitura necessita di una serie di operazioni di finitura, dette finissaggio, che servono a migliorarne il rendimento e l’aspetto. I trattamenti antistatici, anti-infeltrenti, idrorepellenti, o antipiega aumentano le qualità originarie del tessuto rendendolo sempre più rispondente alle esigenze attuali.


5. Piante per colorare

Cosa sono le piante tintorie. Definizione di pianta tintoria e colori ottenibili dalle principali piante

La pratica di produrre coloranti naturali è tanto nota, quanto diffusa ed attuata da millenni a scopi artistici, rituali, ornamentali, cosmetici ed alimentari. Le piante coloranti hanno avuto una immensa importanza nella storia economica e politica, negli scambi culturali, nelle arti e nello sviluppo delle scienze e delle tecniche: alcuni vegetali, i più noti per le loro proprietà coloranti, sono stati coltivati e commerciati, divenendo così agenti economici importanti ed influendo in maniera determinante sullo sviluppo d’intere regioni.

colori.jpgI processi di lavorazione per ricavare il colore dalle piante variano secondo la parte di pianta da utilizzare (bacche, fiori, frutti, radici etc,) ma generalmente sono sempre previste macerazione e “cottura” in acqua. I colori variano in base alle piante: dal guado (Isatis tintoria) si ottiene il colore blu, dallo zafferanone coltivato (Carthamus tinctorius) , dal cavolo cappuccio rosso ( Brassica oleracea L. var. capitata) e dalla robbia domestica (Rubia tinctorum) il rosso, dalla reseda bindella (Reseda luteola), dalla camomilla per tintori (Anthemis tinctoria) e dalla ginestra minore (Genista tinctoria.) il giallo. Il mallo e le foglie del noce, contenenti tannini, permettono la tintura, oltre che dei capelli, anche dei tessuti in un tono particolare di marrone.

L’indaco, uno dei colori più nobili per tradizione, si ottiene oltre che dal guado, dalla “esotica” Indigofera tinctoria, da cui deriva il suo nome (dal latino indicum, cioe’ “proveniente dall’India”) ed ebbe un ruolo rilevante nell’economia dell’India (addirittura esiste tutt’oggi una casta detta dei Nilari che da millenni tingono tessuti in blu con l’indaco) in quanto questa fondamentale materia tintoria, essendo della migliore qualita’, per centinaia di anni venne esportata in tutto il mondo soppiantando l’uso del guado.

Piante tintorie in Toscana. quali erano coltivate, come, da che epoca e che colori se ne ricavano

Fra le numerose specie erbacee coltivate sulle colline della Toscana e che merita di essere ricordata, anche perché è sempre stata una delle rare monocolture, è lo zafferano (Crocus sativus): questa pianta dal fiore viola è una spezia originaria della catena dell’Himalaya, già nota ed apprezzata dagli egiziani, utilizzata sia in cucina (anche se in Toscana se ne faceva poco uso) sia in farmacopea, ma anche per la pittura e per la tintura delle stoffe. A portarlo in Italia e in Spagna furono gli Arabi.

tintorie.jpgIn Toscana apparve intorno al 1200 e prese piede soprattutto sulle Colline Fiorentine e nella zona di San Gimignano. Il Crocus sativus infatti si adatta particolarmente bene ad aree comprese tra 500-700 metri s. l. m., con piovosità media nel periodo invernale e con periodo estivo molto siccitoso. Per la coltivazione inoltre sono da evitare, inderogabilmente, terreni umidi, asfittici e pesanti. Teme soprattutto le brinate autunnali e le nevi precoci che sopraggiungono nel periodo della piena fioritura. Un’altra pianta tintoria che era fonte di reddito per le popolazioni del Chianti e della Valtiberina era il guado (Isatis tinctoria), che per tutto il Medioevo e il Rinascimento ha rappresentato una delle colture più diffuse in queste zone.

La sostanza colorante ricavata dalle sue foglie veniva usata per tingere di blu le stoffe e i tessuti pregiati a Prato, Lucca e Firenze. La coltivazione di questa pianta biennale richiedeva varie ed onerose operazioni colturali a partire, in inverno, dalla zappatura dei terreni e dalla concimazione, che doveva essere molto abbondante; in febbraio, poi, si provvedeva a collocare il seme. Una volta cresciuta, la pianta era oggetto di un continuo lavoro di zappatura e di ripulitura: un’operazione di rilevante importanza poiché la presenza di radici e di altre erbe infestanti, avrebbero irrimediabilmente compromesso la qualità del prodotto.

La prima raccolta delle foglie avveniva nel mese di maggio, ed a questa ne seguivano altre quattro o cinque distanziate di circa 22-25 giorni l’una dall’altra: le raccolte dovevano terminare il 15 di Ottobre. Le foglie entro il 20 di Ottobre dovevano essere triturate dalle ruote di pietra dei vari molini della zona e ridotte in una pasta con cu i si formavano dei “pani”. Questi ultimi erano quindi posti ad asciugare in luoghi ben coperti, sopra dei graticci affinché l’aria circolasse bene tra loro e li asciugasse a dovere, per poi essere venduti ai mercanti.


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 L’industria tessile in Toscana

 

pdf.pngLe varie fibre tessili

 

 

 


 

 

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