In generale, ogni tipo di albero ha esigenze ben precise, tanto che a seconda del tipo di bosco presente su un territorio si può dedurre quale sia il tipo di suolo e quale il clima.
La Regione Toscana di oggi appare ricca di foreste. Che lo fosse un tempo appare evidente facendo riferimento alle opere del passato.
Lo stesso Dante Alighieri definisce il luogo in cui ha inizio il suo viaggio ultramondano “selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinnova la paura” riferendosi alle foreste che all’epoca ricoprivano le vaste aree collinari e montane interne o del litorale toscano.
La conoscenza di quali specie fossero presenti è ricavabile tramite i vecchi diari di viaggio, i dipinti, gli erbari, gli oggetti in legno realizzati dagli artigiani del passato. Ma quanti sono i boschi oggi esistenti e da che specie sono formati?
Il territorio della Toscana è caratterizzato da una grande varietà di ambienti, dai paesaggi alpini delle Apuane, alle montagne dell’Appennino, alle coste rocciose e spiagge sabbiose: ciò permette la presenza sia di specie tipiche dell'aree montana e alpina, che di specie spiccatamente mediterranee, dando luogo ad un panorama naturale assai vario.
La vegetazione predominante lungo la costa toscana, dalla Versilia al grossetano, e le isole è quella della macchia mediterranea. Si tratta di un insieme di piante molto denso in cui prevalgono arbusti, alberi di piccola e media grandezza con specie che si adattano bene alla siccità (specie xerofile) e alle alte temperature (specie termofile) come l’alloro, il corbezzolo, il pino marittimo e domestico, il leccio, la sughera,il ginepro,il mirto e il lentisco.
La macchia ricopre aree estese della Maremma fino ai piedi del Monte Amiata, le Colline Metallifere e le isole dell'Arcipelago Toscano.
Salendo di quota si incontra una tipologia di vegetazione che contraddistingue invece le zone più interne, collinari, ma sempre caratterizzate da un clima temperato, in particolare nelle province di Grosseto, Siena, Arezzo e Firenze. Le specie più comuni sono rappresentate dalle querce decidue e le due specie prevalenti sono il cerro e la roverella con cui spesso si mescolano aceri, carpini e ornielli. Altra tipica specie molto presente e quasi divenuta un simbolo per la Toscana è il cipresso, presente dal litorale tirrenico alle zone collinari interne.
Le regioni appenniniche, localizzate lungo la dorsale che cinge la Toscana da sud-est a nord-ovest e protetta dai venti freddi invernali provenienti dal continente asiatico e dal nord Europa, costituiscono la parte montana della Regione Toscana. I rilievi, con vette che spesso raggiungono i 1000 metri e oltre, divengono mano a mano più acclivi e duri nei profili muovendosi da sud verso le Alpi Apuane.
I tipi di boschi che dominano le montagne della regione sono due: i castagneti, nelle aree situate a quote minori e caratterizzate da scarsa siccità estiva e temperature più favorevoli, spesso affiancati nelle esposizioni più soleggiate da boschi misti di latifoglie caratterizzati da una notevole mescolanza di specie, e le faggete, alle quote più elevate caratterizzate da abbondanti piogge, assenza di siccità estiva ed elevata umidità atmosferica.
Nelle aree di alta montagna il fattore limitante è rappresentato dalle basse temperature, che impediscono la crescita di alcune specie vegetali. In questa zona, vegetano piante mesofile e igrofile come appunto il faggio, l’abete bianco, l’acero montano, l’acero riccio ,l’olmo montano ed il frassino maggiore.
Una tipologia di formazione vegetale che si distacca dai boschi naturali è quella che nasce con
la coltivazione delle piante per la produzione di legname, l’arboricoltura da legno: si tratta infatti di piantagioni artificiali di specie con un certo valore economico e commerciale.
Questi “boschi” sono formati solamente da poche specie, se non da una sola.
Come nel corso dei secoli l’uomo ha imparato a coltivare le piante arboree come i cereali, in modo da avere sempre a disposizione il nutrimento necessario alla propria sopravvivenza, così ha appreso l’arte di sfruttare i boschi senza però distruggerli, favorendo allo stesso tempo la crescita delle specie a lui più utili.
La selvicoltura, intesa come coltivazione del bosco, ha origine antica e le tecniche che propone hanno subito nel tempo numerose trasformazioni e adattamenti da Paese a Paese. In Italia grandi selvicoltori sono stati i frati di vari ordini monastici ad esempio i Benedettini dell’Abbazia di Vallombrosa, che coltivavano abeti nelle foreste del Pratomagno per poi venderli sia a scopo edilizio che ai cantieri navali di Livorno.
Ma quali sono le cose da fare per coltivare un bosco?
Se siamo in un luogo dove il bosco non esiste, ad esempio un campo prima coltivato od un vecchio pascolo, come per ogni tipo di coltura la prima cosa da fare è preparare il terreno e quindi seminare.
In alternativa alla semina si possono utilizzare piantine cresciute in vivaio per 2-5 anni. Negli anni successivi, per favorire lo sviluppo degli alberi seminati (e germogliati) o piantati, devono essere via via eseguite una serie di operazioni che vanno dalla concimazione del terreno all’ irrigazione e alla ripulitura dalle specie indesiderate, proprio come per le coltivazioni agrarie, alla sostituzione delle piante morte o all’eliminazione di quelle in sovrannumero (se sono state piantate troppo fitte) e la potatura delle altre così che crescano il più possibile dritte e vigorose.
Il momento del taglio varia a seconda delle specie, poiché alberi diversi impiegano tempi diversi per raggiungere una data dimensione. Inoltre il taglio viene fatto in modo diverso per garantire la ricrescita del bosco: ci sono infatti molte specie di alberi che sono in rado di rinascere dalle proprie parti sotterranee o più prossime al terreno, come ad esempio il cerro, il castagno o la robinia, ed altre che invece si riproducono prevalentemente da semi, come il faggio.
Nel primo caso si può tranquillamente abbattere tutte le piante presenti, senza ovviamente togliere le radici e la parte più prossima al terreno, ossia la ceppaia; in questo caso si parla di bosco ceduo (le nuove piante hanno origine dalle gemme dormienti situate sulla ceppaia) .
Nel secondo caso si può procedere in due modi diversi: tagliando tutte le piante e seminando sul terreno scoperto o facendo più tagli successivi con i quali si favorisce negli anni lo sviluppo graduale degli alberi. In questo caso il bosco è detto fustaia (le nuove piante hanno origine dai semi caduti a terra e germinati, prodotti dalle vecchie piante lasciate in piedi).
Perché coltivare il bosco?
Fin dall’antichità le selve che ricoprivano le colline e le montagne sono state risorse fondamentali per l’economia delle popolazioni.
I vari tipi di legname erano utilizzati, a seconda della loro qualità, come combustibile e come materiale da opera per falegnami, artigiani e carpentieri, per costruire abitazioni ed imbarcazioni, fare mobili e strumenti per l'attività agricola.
Il bosco inoltre veniva e viene sfruttato per la raccolta di prodotti del sottobosco: funghi (porcini ed ovoli sono tra i più pregiati ma non gli unici dei boschi toscani), mirtilli (famoso il nero detto “PIURO” della montagna pistoiese), lamponi, fragole.
In più era ed è utilizzato per il pascolo del bestiame e per la caccia.
La funzione protettiva del bosco rispetto al terreno nei confronti dell’azione delle piogge e della regimazione delle acque, ed il suo ruolo insostituibile nel garantire gli equilibri naturali, vennero riconosciuti solo a partire dal Settecento. Oggi invece sono universalmente riconosciuti.
Un utilizzo del bosco in continua crescita, infine, è quello turistico e ricreativo: lo dimostra il grande numero di escursionisti che ogni anno sfrutta la bella stagione per passeggiare nel verde, dando così impulso al turismo nelle località della Toscana dalla costa all’Appennino.
1. Tipi di legname diffusi in Toscana e loro uso
Ogni albero è formato da un tipo di legno con caratteristiche legate alla specie cui appartiene, quali ad esempio, il colore o l’odore, e altre strettamente dipendenti da come e dove è cresciuto, come le venature e la sua compattezza.
In generale, ogni tipo di legno ha caratteristiche proprietà fisiche (colore, odore, disegno, ritiro/dilatazione e peso specifico, resistenza a trazione, a compressione, a flessione, elasticità e durezza) e tecnologiche (fendibilità, flessibilità, attitudine al taglio e al pulimento): il loro insieme determina il tipo di utilizzo che può venir fatto con quel legname.
Vediamo ora le principali specie di alberi presenti in Toscana e l’uso che ne veniva e ne viene fatto.
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Il faggio
Il legno è biancastro o giallo rossastro. E' mediamente pesante, tende a fendersi e deformarsi. Nonostante sia poco elastico trova largo impiego nel “curvato”, tecnica di piegatura del legno eseguita a vapore; in questo caso il colore che assume vira sul rosato.
Si usa per pavimentazioni, mobili, carpenteria, serramenti e anche, una volta incatramato, per traversine di rotaie. Inoltre, nelle zone con scarsi pascoli, le sue foglie venivano un tempo utilizzate come foraggio per il bestiame.
Le faggete possono essere gestite come boschi cedui, e in questa forma danno luogo ad una fascia di vegetazione al di sopra dei 1000 m di quota che è continua lungo tutto l’Appennino, Tosco-emiliano, poi sul Pratomagno e lungo l’Alpe di Catenaria, o come fustaie, che in Toscana si ritrovano principalmente all’Abetone, a Vallombrosa e sul Pratomagno e derivano tutte da conversioni effettuate agli inizi del ‘Novecento.
Secondo un’antica credenza popolare toscana, dormire su un guanciale imbottito di foglie di faggio porterebbe ricchezza. Mentre secondo un’altra una credenza popolare, stavolta francese, i faggi sono abitati dalle anime di coloro i quali devono espiare una pena commessa in vita.
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L’abete bianco
Il legno è tenero di colore bianco tendente al giallo pallido. Ha una fibra grossolana ed è ricco di nodi, caratteristica che danneggia gli utensili rendendolo di difficile lavorazione. In Toscana l’abete bianco è quasi sempre stato introdotto per la coltivazione, pratica che ebbe inizio dai monaci di Vallombrosa e Camaldoli e si diffuse in seguito nelle aree montane delle province di Pistoia, Prato, Firenze ed Arezzo. L’optimum per questa specie è infatti costituito dai terreni al di sopra dei 1000 m (al di sotto la pianta cresce stentata ed è più soggetta a malattie), ma lontano dai crinali
Fra gli abeti è il meno pregiato; si usa per imballaggio, impalcature, travi, pavimenti e intelaiature all'interno, in ambienti asciutti. Inoltre dalla resina si estrae la trementina.
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L’abete rosso
Il legno di Abete rosso ha un basso peso specifico, si lavora facilmente, è solido, elastico e si può rifinire bene. E' più resistente del legno dell'abete bianco sia all'umidità sia dal punto di vista meccanico. Il suo fusto molto dritto ne raccomanda l'uso per pali, antenne, alberi di barche o navi e costruzioni in genere. Può essere lavorato al tornio e utilizzato per mobili, cornici e strumenti musicali. Dalla distillazione della resina si estrae la trementina.
L’abete rosso è una delle conifere più diffuse sulle montagne italiane, tanto da dare nome ad una delle zone della classificazione fitoclimatica del territorio (il picetum, appunto): in natura si trova in posizioni molto elevate, ed in Toscana le uniche popolazioni autoctone sono quelle di Capolino (Abetone) e del Monte Amiata. Viene comunque anche qui coltivato in vivai per il mercato di alberi di Natale
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Il castagno
Il legno è semi duro, di lunga durata e particolarmente resistente alle intemperie. Non rende molto come legna da ardere perché scoppia, sfavilla e il carbone si estingue facilmente. Il legno e la corteccia sono ricchi di tannino, una sostanza conciante per la sua azione particolarmente protettiva nei confronti dei tarli.
Oltre a rappresentare una fondamentale risorsa alimentare per le popolazioni montane, tanto da essere chiamato l’albero del pane, il castagno forniva materiale per innumerevoli altri usi: dal legno si ricavavano infatti elementi architettonici (travi, infissi, porte, ballatoi etc.), mobili, pali, botti, sfruttando i giovani polloni si ricavavano materiali da intreccio per cesti, mentre dalla corteccia si estraevano i tannini per la concia delle pelli e le foglie erano utilizzate come foraggio e come lettiera per gli animali.
Specie curata e coltivata fin dall’epoca etrusca, prevalentemente gestita come bosco ceduo, è diffusa su tutti i rilievi toscani, trai 5000 ed i 1000m di quota, ed è particolarmente abbondante nelle aree di nord ovest (province di Pistoia, Lucca e Massa Carrara). Le fustaie presenti derivano quasi tutte dalla conversione di cedui, e le magiori concentrazioni si hanno in questo caso sul Monte Amiata, i cui terreni derivati da lave vulcaniche sono particolarmente adatti alla castanicoltura,, sull’Alpe di Catenaria e sul Pratomagno.
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Il pino silvestre
Tra i diversi usi del legno (impiegato per strutture portanti e costruzioni edili in genere, paleria per telecomunicazioni, falegnameria, imballaggi) non ultimo è quello della fabbricazione della pasta da carta.
Dalla distillazione del legno inoltre si ottiene il catrame vegetale e, per incisione dei fusti, la trementina naturale. Le gemme vengono usate in medicina come balsamico. Non è una specie autoctona, ma si è molto diffuso in seguito sia a rimboschimenti che alla crescita dell’arboricoltura da legno.
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L’acero
Il legno è di colore chiaro, giallo rosato, con venature, duro, a fibra molto compatta. Si usa per falegnameria interna ed esterna, per lavori di ebanisteria, per impiallacciatura, per la fabbricazione di strumenti musicali. Esistono molte specie di Acero (circa 150 distribuite in tutto l’emisfero boreale), ma solo otto sono spontanee in Italia. Di queste in Toscana sono frequenti sull’arco Appenninico l’Acero montano (Acer pseudoplatanus) ed il più esigente Acero riccio (Acer platanoides), mentre in tutta l’area collinare (e non solo) è diffusissimo l’Acero campestre (Acer campestre), usato un tempo per maritare le viti, e dalla costa fino a 500 m di quota è facile incontrare, anche su terreni aridi e rocciosi, l’Acero minore (Acer monspessulanum)
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Il carpino nero e bianco
Il legno, molto duro e compatto, ha un’ottima resistenza meccanica però si torce facilmente e non è adatto alla pialla e al tornio perché tende a scheggiarsi. Se ne fanno manici di utensili, ruote idrauliche e ingranaggi, viti di pressione e attrezzi agricoli. I boschi a prevalenza di Carpino nero (quasi tutti cedui) sono tipici dei rilevi con rocce calcaree o marnose: particolarmente frequenti nell’Alto Mugello, si ritrovano anche nelle esposizioni nord dei poggi calcarei fiorentini e nelle discariche delle cave di marmo Apuane.
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Il cipresso
Il legno è duro, compatto e profumato. Resiste bene ai tarli e all'umidità. E' usato per mobili, infissi interni ed esterni e costruzioni marittime.
L’importanza di questa pianta però va al di là dell’utilizzazione del suo legno: in Toscana infatti il cipresso è un elemento caratterizzante del paesaggio. Portatovi dai Fenici e dai Greci (è infatti una specie originaria del Mediterraneo orientale), è una pianta che per secoli ha avuto una grande importanza pratica e simbolica: data la fibra fitta, compatta e regolare era usatissimo nella costruzione di scafi (anche l’arca di Noè – ricorda la Bibbia – fu costruita in cipresso), di mobili lussuosi e raffinati strumenti musicali, mentre il suo significato simbolico fin dai tempi degli Etruschi, dei Greci e dei Romani era legato alla sfera mortuaria (il nome infatti deriva dalla leggenda di Ciparisso, che un giorno uccise per sbaglio un cerbiatto da lui amorosamente cresciuto: per il dolore si tolse la vita ed Apollo, commosso, lo tramutò in un albero la cui resina forma sul tronco gocce simili alle lacrime del giovane suicida) ed era considerato un albero sacro, simbolo di eternità. La sua forma slanciata ed elegante ha fatto sì che fosse ritenuto dai cristiani un simbolo dello slancio delle anime verso Dio, e come tale è stato inseparabile compagno non solo dei cimiteri, ma anche di ogni chiesa, pieve o convento. Inoltre sempre per la sua forma costituisce un ottimo punto di riferimento visivo: come tale in Toscana era posto nelle campagne a segnalare un confine od un bivio. Infine è utilizzatissime per formare lunghi viali a fianco di antiche ville e fattorie. Ciò è in parte riconducibile al fatto che i filari di cipressi costituiscono degli ottimi frangiventi, in parte al pregio ornamentale di questa pianta, e infine in parte al suo simboleggiare la longevità (dato che è una pianta dalla vita lunghissima) e alle credenze medioevali che lo ritenevano capace di proteggere dagli incantesimi (in realtà, data la forma, costituisce un ottimo parafulmine naturale, il che forse spiega questa credenza).
Onnipresente dunque, almeno entro i limiti legati alle sue esigenze in termini di temperature che lo limitano alla zona a clima mediterraneo e a quella collinare (evitando i fondovalle delle colline più interne poiché è pianta che teme le gelate), da luogo a veri e propri boschi sui rilievi delle province di Firenze e Prato.
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Il cerro
Il legno è molto duro. Utilizzato principalmente come legna da ardere, era sfruttato anche per lavori di tornitura e per fare traversine ferroviarie.
E’ la specie forestale più diffusa nella regione, sia in boschi puri (fustaie ma soprattutto cedui) che misto alla roverella, ed è diffuso dalle aree di bassa montagna (teme infatti gelate tardive e freddi intensi) a tutta la zona collinare interna, mentre si dirada e scompare avvicinandosi alla costa,dove il clima è troppo arido.
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La roverella
Il legno era usato principalmente come combustibile, ma anche per travature e nelle costruzioni navali. Inoltre la roverella era particolarmente apprezzata per la ghianda, molto gradita ai suini: spesso quindi veniva lasciata come pianta isolata nei campi o a formare boschetti di alto fusto vicino alle case coloniche, specialmente in Casentino, in Val Tiberina e nel Chianti. Specie che si adatta anche a suoli calcarei ed aridi, si ritrova in boschi cedui prevalentemente nelle province di Siena, Arezzo e Firenze.
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Il leccio
Il legno del leccio è molto duro, compatto, resistente, e non viene attaccato dai tarli. E’ utilizzato nella fabbricazione di mobili, leve, assi di carri, attrezzi da falegname.
Questa quercia sempreverde è diffusa dal livello del mare fino a circa 600/700m di quota ed è legata ad ambienti con estati lunghe e calde; mal sopporta inoltre forti abbassamenti delle temperature anche quando è in stato di dormienza. Nelle zone litoranee è componente tipico della macchia alta mediterranea (insieme al corbezzolo, alla fillirea, al lentisco ed al ginepro)., mentre spostandosi verso l’interno si ritrova a formare boschi cedui, soprattutto nelle province di Pisa, Livorno, Siena e Grosseto . le fustaie infatti sono state da tempo tramutate in cedui e ne rimangono solo piccoli lembi all’interno dei parchi delle ville, oltre ad alcuni giovani popolamenti nei boschi demaniali della Maremma.
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Il corniolo
Il legno è bianco rossastro, durissimo e resistente e la superficie si può levigare molto bene. E' adatto per lavori di tornio, intaglio e intarsio. Anche i frutti di questa pianta sono molto apprezzati, utilizzati per fare marmellate, distillati e grappe. Il corniolo è specie che predilige terreni calcarei umidi ed ombrosi, quindi si può trovare nei boschi di alta collina o di montagna
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{slide=il pino marittimo}
Il pino marittimo
E’ usato per la carpenteria navale, es. fasciame dei gozzi e soprattutto nell'ebanisteria, per le strutture di vari mobili. E’ anche utilizzato a volte per le travature di soffitti e tetti, assieme al larice, e per alcune parti di edifici, come portici, archi o architravi, e per rivestimenti. La segagione, la piallatura e la pulitura non presentano problemi; tuttavia ha spesso problemi di compressione che ne pregiudicano l'impiego in falegnameria. La resina viene utilizzata per produrre la trementina.
E’ una specie originaria del Mediterraneo occidentale, largamente diffusa dall’uomo dati i suoi numerosi utilizzi, la capacità di tollerare bene la salsedine e di adattarsi a terreni poveri ed aridi ed in particolare alle dune sabbiose( ed è infatti usato per stabilizzarle)
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2. I mestieri di ieri e di oggi legati ai boschi
Il boscaiolo ed il carbonaio erano i mestieri tipici che si svolgevano all’interno dei boschi e delle macchie. In entrambi i casi si trattava di mestieri ingrati, che costringevano gli uomini spesso ad allontanarsi dalle loro case ed a costruirsi ripari di fortuna sul luogo di lavoro, in cui le squadre di boscaioli (e lo stesso dicasi per i carbonai) avrebbero vissuto per tutto il periodo necessario per completare la loro opera.
Il lavoro del boscaiolo iniziava con la ripulitura del sottobosco. Si proseguiva poi con il taglio del bosco vero e proprio: nel caso di boschi cedui si ricavava legname per fare attrezzi o carbone, o anche paleria. I giovani polloni dei castagneti fornivano inoltre materiale da intreccio per la fabbricazione di cesti.
Nel caso invece di boschi d’alto fusto, la produzione era destinata principalmente sia ad opere di carpenteria,che alla realizzazione di mobili, che ai cantieri navali come nel caso di querceti o faggete ed abetine (famose erano in questo caso quelle del Casentino).
Il trasporto dei materiali veniva svolto o dai "conduttori" che trasportavano il legname con i carri, o, se il legname veniva fatto trasportare dai fiumi, dai "foderatori", che provvedevano alla realizzazione dei foderi (cioè delle specie di zattere formate dai tronchi tagliati in bosco).
Oggi il taglio dei boschi viene fatto con un minor dispendio di energie, data la disponibilità di moderne attrezzature come le motoseghe e l’utilizzo di camion per il trasporto, comunque rimane pur sempre un mestiere molto faticoso e che richiede una grande abilità.
Nelle zone boscate di montagna in prossimità di fiumi sorgevano molte segherie, che sfruttavano l’acqua come forza motrice: ne sono rimaste testimonianze in Casentino ( ad esempio l’antica segheria impiantata lungo la Lama da Karl Siemon, tecnico forestale incaricato della riorganizzazione delle foreste casentinesi a metà Ottocento dal granduca Leopoldo II), sulle Montagne Pistoiesi, a Vallombrosa etc.
I mestieri legati alla lavorazione del legname erano e sono ancora oggi numerosi: dal carpentiere, al falegname, al liutaio, dall’intagliatore e l’ebanista, al bottaio e allo zoccolaio, mestieri questi ultimi ormai scomparsi.
ll liutaio
Gli amanti della musica sano bene che uno degli elementi fondamentali di molti strumenti musicali (violini, viole, violoncelli, contrabbassi ma anche mandolini e chitarre) è proprio il legno con cui sono fatti.
Colui che si occupa della costruzione ed anche del restauro di strumenti musicali ad arco, come i violini, e a corda, come le chitarre, è il liutaio. Quella del liutaio è un’arte che, dall'epoca classica della liuteria (XVII, XVIII secolo), è giunta fino ai giorni nostri quasi immutata ed è tutt’oggi richiestissima, specialmente da parte di chi fa musica ad alto livello.
Il legno e il vino: bigonai e bottai
Trai tanti artigiani del legno, molti erano quelli che lo utilizzavano perché servisse nella preparazione di quello che è uno dei prodotti simbolo della campagna Toscana: il vino.
I primi chiamati in causa erano i bigonai, e famosi erano quelli di Moggiona in Casentino, che fabbricavano le bigonce, cioè quei recipienti stretti alla base e più larghi alla bocca, formati da assicelle (doghe)disposte verticalmente, utilizzati durante la vendemmia per portare i grappoli in cantina. Si tratta di un mestieri oggi in via di sparizione, poiché per o più oggi si tende ad utilizzare recipienti di plastica.
Diversa è stata la sorte dei bottai: se i più famosi nel mondo oggi sono forse gli artigiani francesi che fabbricano barriques, i primi ad utilizzare il legname per fare recipienti in cui conservare il vino furono probabilmente gli Etruschi, nel V secolo a.C. Si può dunque dire che quello del bottaio sia a tutti gli effetti un mestiere tipico toscano! Un lavoro che inizia con la scelta delle doghe, precedentemente stagionate, che poi vengono assemblate in cerchio ed incurvate in modo da dare alle botti la loro forma tipica, e contemporaneamente strette fra loro in modo da formare un recipiente stagno. Ma le botti non servono solo a contenere il vino: il legno infatti trasmette al vino i suoi profumi e sapori: è dunque importantissimo che il bottaio sia in grado di sceglierere il giusto tipo di legname da utilizzare ed il giusto grado di tostatura (affumicatura, che avviene contemporaneamene alla curvatura delle doghe dato che questo processo richiede calore ed umidità). A tale scopo il legno migliore è quello di alcune querce: prima fra tutte la rovere, ma anche la farnia. Molto utilizzato era anche il legno di castagno.
Ebanisti, intagliatori ed intarsiatori
A chi rivolgersi per acquistare i mobili? Ieri come oggi la prima discriminante era il budget a disposizione: se attualmente chi ha poco denaro da investire nell’arredo si rivolge alle grandi catene che vendono mobili costruiti a macchina ed in serie, un tempo si sarebbe rivolto al falegname. Chi però aveva molto più denaro a disposizione si rivolgeva all’ebanista, nome che deriva dal francese menuisier en ébene, cioè falegname specializzato nella lavorazione dell’ebano, e che più esattamente indica coloro che si sono specializzati nella realizzazione di mobili utilizzando legnami pregiati.
La figura dell’ ebanista, o stipettaio (lo stipo è quel mobile che, nato nel ‘500 in Italia e divenuto nel ‘600 il mobile per eccellenza, ha la forma di un parallelepipedo, chiuso da ante o ribalte, con lo spazio interno suddiviso in numerosi piccoli scomparti, alcuni segreti, per riporre documenti, denaro e preziosi) nasce nel Rinascimento quando i mobili diventano opere d’arte, grazie alla riscoperta delle arti dell’intaglio e dell’intarsio. Entrambe note a Egiziani e Romani, le due tecniche si differenziano tra loro perché mentre l’intaglio prevede la realizzazione di decori scavando la superficie del legno, l’intarsio è l’equivalente di un mosaico (realizzato ovviamente sulle superfici piane dei mobili), creato mediante l’utilizzo di legnami di tipo diverso, dalla fine del XV secolo spesso colorati tramite bollitura, o utilizzando materiali come avorio, madreperla e pietre.
Fra Quattrocento e Cinquecento l’epicentro delle produzioni intarsiate in Europa fu Firenze, dove erano censite ben 84 botteghe di legnaioli di tarsia e di intagliatori, tutte in via Tornabuoni ed in via Larga dei legnaioli, e fu sempre a Firenze, nella seconda metà del ‘600, che si sviluppò la tecnica del commesso, cioè l’intarsio realizzato utilizzando pietre dure. Queste tecniche decorative fortunatamente non sono andate perdute, anzi in Toscana esiste ancora quella scuola di fama mondiale che è l’Opificio delle pietre dure dove nacque la tecnica del commesso, anche se intagliatori ed intarsiatori trovano lavoro soprattutto nel settore del restauro.
I mobilifici in Toscana oggi
Oltre al taglio del bosco, la lavorazione del legno e la realizzazione di mobili hanno costituito per secoli una delle principali attività artigianali diffuse in Toscana. Ed ancora oggi la filiera del mobile conta circa 8.500 aziende (Dati IRPET), su un territorio molto vasto che va da Cascina e Ponsacco nella provincia di Pisa a Quarrata, in provincia di Pistoia, da Reggello (FI) a Poggibonsi e Sinalunga (SI), che in realtà sono le due aree oggi con più mobilifici. Ma da dove prendere il legno? Oggi infatti i boschi toscani non vengono quasi più tagliati, dato che è stata data priorità alla loro funzione protettiva: la maggior parte del legno utilizzato viene dunque importato, anche se negli ultimi anni si è andata sviluppando sempre più anche in Toscana, grazie anche agli incentivi offerti dalla Comunità Europea a partire dal 1991, l’arboricoltura da legno. Sono stati impiantati cioè nuovi “boschi”, su terreni precedentemente utilizzati per attività agricole, destinati ad essere tagliati e quindi di nuovo piantati, scegliendo ove possibile, in base al tipo di terreno ed al clima, specie dal legname pregiato.
3. Il trasporto del legname: le vie dei boschi
In epoca medioevale prima e rinascimentale poi, data la mancanza di strade e di mezzi per poter trasportare agevolmente il legname ai cantieri, il percorso si sviluppava secondo tracciati consolidatisi nei secoli, che prevedevano solo una minima parte del tragitto via terra, per poi proseguire via fiume.
I principali percorsi via terra, le cosiddette "vie dei legni", ancora oggi visibili nelle foreste di Camaldoli e di Vallombrosa, costituivano da una vera e propria rete organizzata, ed erano lastricate così da permettere il trasporto del legname per trascinamento, utilizzando i buoi.
Tutti i percorsi che attraversano i boschi confluivano in uno principale, e questo conduceva fino al fiume, dove esistevano i cosiddetti "porti": la strada dei legni di Vallombrosa, ad esempio terminava al porto di S.Ellero, posto proprio alla confluenza tra il Vicano e l'Arno, mentre in Casentino il porto era a Pratovecchio.
Qui i legni veniva legati insieme a formare i “foderi”, che, nei mesi in cui il fiume era ricco d’acqua, venivano fatti navigare da uomini esperti (i foderatori appunto) come fossero imbarcazioni fino ai cantieri edili di Firenze o a quelli navali di Pisa.
I carbonai
L’arte di fare il carbone ha rappresentato fino a quasi mezzo secolo fa una delle risorse che hanno garantito la sopravvivenza delle popolazioni delle montagne toscane: in particolar modo erano famosi e molto richiesti nella Maremma toscana e laziale (ma anche in Sardegna ed in Corsica) quelli originari dell’Appennino pistoiese. La loro era una vita molto dura, che prevedeva lunghi periodi da trascorrere nei boschi lontano non solo dalle famiglie ma spesso anche dai paesi: solitamente per facilitarsi un minimo l’esistenza i carbonai, che operavano sempre in squadre, portavano con loro un apprendista, che era anche incaricato di provvedere alla custodia delle provviste, alla preparazione dei pasti e alla pulizia delle capanne in cui la squadra viveva, oltre ad altre mille piccole incombenze legate al mestiere come ad esempio l’accensione della carbonaia.
Preparare il carbone dalla legna non era inoltre certo facile: le carbonaie erano grosse cataste di legno a forma conica con un’apertura sulla parte centrale che fungeva da camino e la loro costruzione richiedeva vari passaggi. La combustione, a seconda del quantitativo di legna impiegata (dai 50 ai 100 quintali di legna), durava dagli 8 ai 20 giorni e doveva essere accuratamente controllata : l’ accensione era fatta gettando della brace nella canna fumaria, poi chiusa con una pietra piatta. Era necessario diffondere il fuoco in maniera omogenea all’interno e, nei giorni successivi, seguire passo passo la “distillazione” del legname: bisognava infatti limitare il tiraggio e assicurarsi che la combustione non prendesse piede, trasformando il carbone in cenere, e che non si formassero crepe nella camicia. Una volta che la carbonaia si fosse spenta, veniva aperto un varco su un lato ed il carbone, così ottenuto, era sistemato in balle chiamate vagonali pronte per il trasporto.
Dal bosco alla carta
In Toscana la produzione della carta iniziò verso la fine del 1200 ( le prime cartiere europee furono costruite, secondo le tecniche apprese in Cina, dagli arabi in Spagna e da qui ad Amalfi nel 1220 e a Fabriano nel 1276: da questi due centri si diffusero poi in tutta Italia) ed il distretto cartario è ancora oggi raggruppato nelle piana tra Lucca e Pistoia, e comprende numerosi comuni: Altopascio, Bagni di Lucca, Barga, Borgo a Mozzano, Capannori, Castelnuovo di Garfagnana, Coreglia Antelminelli, Fabbriche di Vallico, Gallicano, Pescia, Porcari, Villa Basilica. La scelta di installare le cartiere in questa area fu, nel medioevo, determinata non solo dalla disponibilità di acqua, legata alla presenza del Serchio e del Pescia e dei loro affluenti, ma anche dallo sviluppo dell’industria tessile nel territorio di Lucca: allora erano infatti gli stracci a fornire la materia prima per la produzione della carta e non il legno.
A lungo andare, tuttavia, la presenza di cartiere provocava una certa penuria nella disponibilità locale di stracci; da qui la nascita del mestiere dei raccoglitori e rivenditori di stracci, o cenciaioli. Inoltre il grande diffondersi dell’uso della carta, anche in seguito all’invenzione della stampa, rese sempre più difficile l’approvvigionamento di stracci e si cominciò a cercare del materiale di fabbricazione alternativo: fu nell’ Ottocento, dopo quasi un secolo di studi, che si iniziò a fabbricare la carta a partire dal legname.
La realizzazione della carta iniziava ed inizia con la trasformazione del legno, in genere di abete o pioppo, in polpa, cioè in una miscela concentrata di fibre in sospensione nell’ acqua.
In questa sospensione venivano immerse le "forme", sorta di setacci su cui si depositava un intreccio di fibre. Le forme venivano quindi estratte, muovendole in modo da rendere uniforme lo strato di fibre, e si lasciava scolare via l'acqua: lo strato di fibre così ottenuto era depositato su di un feltro, che veniva posto su una pila di altri fogli e feltri. Questa pila veniva torchiata per spremerne via l'acqua. Alla fine, il foglio di carta veniva appeso ad asciugare.
A fine del XIX secolo la fabbricazione della carta subì una trasformazione, con l’introduzione macchine per la produzione continua di carta. Le macchine continue sono fornite di un setaccio a forma di tappeto mobile che preleva uno strato continuo di fibre. Durante il suo cammino, il nastro di carta in via di formazione viene addizionato di colle, cariche minerali e di altre sostanze, quindi viene spremuto dall'acqua in eccesso, asciugato e rullato. Alla fine, viene raccolto in grandi bobine ed inviato alle fabbriche che lo trasformano in giornali, quaderni e numerosi altri prodotti.
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